La storia della mia abilitazione. Capitolo 6 – Laboratorio di tesi

Fin da sempre, ho coltivato una profonda passione per la progettazione, il che ha reso la scelta del Laboratorio di Tesi un percorso naturale per me. Nonostante mi trovassi in una situazione in cui mi mancavano circa tre esami da superare, rimasti indietro nei primi anni del mio percorso accademico, mi recai dal Professore, noto ed eccezionale architetto di fama nazionale ed internazionale, che abbiamo già conosciuto nel capitolo 4 della mia storia. Chiesi se avesse la disponibilità di prendere sotto la sua ala uno studente come me, desideroso di raggiungere il culmine della sua carriera accademica. Tuttavia, in questo percorso, non ero solo

Bussai alla porta del piccolo ufficietto che il dipartimento, con tanta fatica, aveva messo a disposizione sua e della assistente tutto-fare. Insieme a me, sempre con il suo fare accondiscendente e quasi sottomesso, era presente il mio collega nonché un amico, facente parte del famoso trio. Negli ultimi anni, ci eravamo un po’ allontanati, un pezzo del nostro percorso si era perso per strada, rappresentato dal terzo membro del gruppo, che aveva dimostrato maggiore tempestività e decisione nel superare certi esami, portandolo un gradino avanti rispetto a noi. Tuttavia, nonostante le differenze e il fatto che stesse per concludere il suo percorso di studi, eravamo uniti da un legame indissolubile, sempre pronti a sostenerci reciprocamente.

Il professore ci fece accomodare e, guardandoci rapidamente negli occhi, attese che iniziassimo a spiegare il motivo del nostro incontro. Sempre stato il più diretto dei tre, presi la parola e gli chiesi se fosse disposto a diventare il nostro relatore per la tesi. La sua risposta fu un secco “Sì, va bene. Trovate un bando su cui sviluppare il progetto“. Con queste poche parole, ci congedò, poiché altri laureandi dovevano revisionare i loro progetti in vista delle imminenti discussioni. Il professore aveva un’apparenza burbera, con la barba leggermente trascurata e gli occhiali appoggiati quasi alla punta del naso. Apprezzava la concretezza e non amava le parole prive di sostanza. Quella breve riunione durò solo pochi istanti, e quando io e il mio amico uscimmo dall’università, ci scambiammo uno sguardo soddisfatto. Iniziammo subito a esaminare numerosi bandi per selezionare il progetto su cui avremmo lavorato nei prossimi mesi.

Ricademmo su un bando per la progettazione di una libreria nel distretto finanziario di Londra, un tema che ci entusiasmava profondamente. Con grande determinazione, iniziammo ad esplorare la zona. Appena usciti dall’ambiente accademico, seguimmo scrupolosamente tutti i passi necessari, portandoci alla conclusione del processo in circa quattro mesi. La prima tappa fu uno studio urbanistico dell’area di intervento, in cui sviluppammo schemi e grafici relativi al contesto del progetto. Dedichiamo diverse settimane a esplorare l’area su Google Street View, cercando di comprenderne le peculiarità. La tecnologia si rivelò un alleato prezioso, risparmiandoci un viaggio fisico che avremmo potuto considerare una perdita di tempo, specialmente considerando la mia tendenza alla pigrizia. Le prime revisioni che presentammo al Professore si concentrarono sulla delimitazione del lotto e la comprensione completa del bando. I giorni passavano, ma dovevamo ancora decidere quale tipo di struttura avremmo dovuto progettare, almeno virtualmente, per competere con le iconiche architetture di Norman Foster come il “City Hall” e il “The Shard” di Renzo Piano nelle vicinanze. Il bando giunse alla sua scadenza senza che fossimo riusciti a completarlo, ma questa circostanza non ci preoccupava particolarmente. Il nostro obiettivo principale, senza lasciarci distogliere da eventi che non avrebbero portato a nulla, era quello di laurearci il prima possibile.

Revisione dopo revisione entrammo in sintonia più marcata con il Professore e come un mattoncino lego posato sopra il precedente, concludemmo l’ossatura della nostra Opera.

È passato molto tempo ormai, e mi sento in grado di ammettere che, nonostante i progetti di tesi fossero pieni di ambizioni rivoluzionarie, studiati in dettaglio e radicati nella cultura del luogo, si sono rivelati, alla fine, dei semplici “copiaincolla” di altri lavori, carenti di originalità e approfondimento. Anche se passiamo la maggior parte del tempo a “studiare” per creare organismi in cui forma e funzione si fondono, e cerchiamo epiteti sempre più lusinghieri per vestire di significato blocchi di materia, se togliessimo gli abbellimenti grafici dai nostri progetti, scopriremmo che manca loro una sostanza autentica. Il mio percorso non fa eccezione. È come se avessi creato involucri apparentemente significativi, ma sotto la superficie, tutto risultava vuoto. Pur tentando di attribuire un significato a ogni aspetto, in realtà avevo solo ingannato me stesso.

Un giorno di aprile, ho conseguito la laurea presentando la mia tesi. Ero nervoso e avevo optato per un completo fuori dagli schemi rispetto allo standard dell’abito blu con camicia bianca e cravatta. Indossavo un elegante principe di Galles grigio con una camicia rosa, senza cravatta. Mentre la maggior parte delle persone indossava uniformi conformi alle aspettative, alcuni osavano con un papillon, il più audace dei quali era di un colore rosso acceso. Il rosso ed il gufo sono simboli tradizionali dei laureati, ma io ho sempre seguito una strada diversa. Se il mondo prende una direzione io devo andare dalla parte opposta. Volevo distinguermi in modo unico. Preparai una presentazione ricca di contenuti e discussi con il mio collega per circa quindici minuti. Durante la discussione, un membro della commissione sollevò una domanda tanto geniale quanto inaspettata: “Ma come si puliscono le vetrate?” In quel momento compresi appieno la differenza tra un architetto progettista e chi si è limitato a teorizzare l’architettura. Un bravo professionista si distingue per l’attenzione ai dettagli, compresi gli aspetti più trascurati. Cinquemila metri quadrati di facciata vetrata, e nessuno aveva pensato a un sistema di pulizia? Un sistema di carrucole e argani sulla copertura per permettere la pulizia dei costosi vetri float? Non potevo permettere che la mia tesi si concludesse con una piccola sconfitta. Risposi prontamente: “Le vetrate sono autopulenti, si lavano quando piove.” In tutti quei mesi di sviluppo del progetto, non avevo minimamente pensato a questo aspetto, né agli ancoraggi delle strutture in acciaio. Tuttavia, la semplice domanda sulla pulizia delle ampie vetrate fu più insidiosa e destabilizzante di una ipotetica domanda sulla statica della struttura. Con la mia risposta, lanciata in modo impulsivo solo per evitare di restare in silenzio, conclusi la discussione come se stessi facendo un “mic drop”1.

Non avevo la minima idea di aver solo scalfito la superficie dell’universo che mi attendeva.

  1. Il “mic drop” è un gesto diventato popolare che viene spesso usato, in tono tra il giocoso e l’arrogante, al termine di un discorso o un’esibizione riuscita particolarmente bene, per dire in modo perentorio “me ne vado”. ↩︎

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